Mia moglie mi ha denunciato per maltrattamenti

Prosciolto un 57enne del Chivassese, in provincia di Torino, accusato di maltrattamenti in famiglia per intervenuta prescrizione. Il fascicolo era stato aperto dopo le numerose denunce presentate fra il 2014 e il 2015 dalla moglie, vittima per oltre vent'anni di botte, calci, pugni, schiaffi e umiliazioni. Il processo però è arrivato sei anni dopo, nel 2021, un tempo che ieri ha costretto la giudice Stefania Cugge a prosciogliere l'imputato nel processo celebrato in tribunale a Ivrea (Torino), anche perché ha dovuto applicare la disciplina precedente alla riforma della prescrizione entrata in vigore nel 2017. La vicenda viene riportata dal quotidiano La Stampa.

Il commento dei legali

"Il giudice ha applicato la legge nel rispetto dei principi del giusto processo che impone la sua celebrazione in tempi ragionevoli - afferma il legale Pierpaolo Chiorazzo, difensore dell'uomo -. Tempi che in questo caso non sono stati rispettati, a prescindere dall'eventuale responsabilità del mio assistito".

"Questa purtroppo era la legge - dice la legale di parte civile -. Ora, grazie al 'Codice rosso' (legge del 2019 a tutela della vittime di violenza domestica e di genere, ndr), le donne sono maggiormente tutelate". "Fosse stato in vigore il 'Codice Rosso' sarebbe andata diversamente". "Nel capo di imputazione compaiono episodi raccapriccianti", afferma l'avvocato. "Con il 'Codice Rosso' - spiega ancora il legale - sono state introdotte delle modifiche importanti. La trattazione di questi fascicoli, per esempio, è diventata prioritaria". Nel processo in questione non furono adottate misure cautelari o restrittive a carico dell'indagato e, come aggiunge la legale, non ci sono stati atti interruttivi della prescrizione". 

La donna: “Non mi sentivo protetta”

"Al tempo delle denunce ho avuto molta paura. Non mi sentivo protetta", ha spiegato la donna. "Una delle persone che mi ha sostenuto – ha aggiunto – è stato il mio legale, l'avvocata Sonia Maria Cocca". "Quello che mi fa ancora rabbrividire – dice ancora la donna riferendosi ad alcune delle numerose circostanze che aveva denunciato – è il ricordo dei giuramenti sulla tomba del mio primo figlio; dico 'mio' perché il padre non era il mio ex marito".

Il reato di violenza privata tra i partner

(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)

Durante il matrimonio o nel corso della convivenza o in occasione della separazione spesso si commette il reato di violenza privata, previsto nell’ambito dei delitti contro la libertà morale e precisamente dall’art. 610 c.p. che così stabilisce: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”, ossia nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse con armi, oppure da una persona travisata o da più persone riunite, o con uno scritto simbolico, oppure valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o soltanto supposte.

Si tratta di un reato comune, che non richiede una particolare qualifica del soggetto agente.

La norma tutela la libertà morale dell’individuo e la sua facoltà di autodeterminarsi spontaneamente. Protegge, pertanto, la libertà psichica da qualsiasi comportamento violento e intimidatorio in grado di esercitare una coartazione, sia diretta che indiretta, per costringere a fare, a non fare o a tollerare una determinata azione.

La condotta può consistere nella violenza oppure nella minaccia, dirette a ridurre o ad annullare la capacità di determinarsi liberamente. Possono essere esercitate sul soggetto passivo oppure su una terza persona, come un figlio o un ascendente, o anche sulle cose.

La nozione di violenza è stata interpretata in senso estensivo, ricomprendendo sia quella propria (attraverso l’uso della forza fisica), che quella impropria, mediante l’utilizzo di qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà della vittima.

La minaccia consiste, invece, nella prospettazione di un male ingiusto: il male, per definirsi tale, deve essere diretto verso interessi giuridicamente rilevanti.

È configurabile il tentativo di violenza privata, quando non si raggiunge l’effetto voluto per fatti indipendenti dalla volontà del soggetto agente.

Il dolo è generico, in quanto il fine di costrizione realizza il suo momento consumativo: è sufficiente la coscienza e volontà di costringere la vittima a fare, a non fare o a tollerare.

Il reato di violenza privata possiede una natura sussidiaria, venendo assorbito da tutte le fattispecie che prevedono la violenza o la minaccia come loro elemento costitutivo.

Condotte che separatamente considerate integrano la violenza privata, qualora diventino abituali e reiterate nel tempo, rilevano con riguardo al reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p.

Sul tema dell’assorbimento o del concorso tra reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi e quello di violenza privata la Cassazione si è espressa in modo differente: quando ha riconosciuto il concorso, ha precisato che la violenza o la minaccia reiterate erano finalizzate ad uno scopo ulteriore rispetto a quello vessatorio (Cass. sent. n. 22769/2010).

Quando la conseguenza dei maltrattamenti è rappresentata da uno stato di afflizione, prostrazione o timore, pare difficile escludere che ne rimanga compressa anche la libertà morale della stessa, tutelata dall’art. 610 c.p., pertanto, la violenza privata è stata ritenuta assorbita nei maltrattamenti (Cass., n.13709/2020).

Il reato commesso da un coniuge o da un convivente potrebbe ritenersi aggravato dalla sussistenza della circostanza di cui all’art. 61 n. 11 c.p. che prevede che il fatto sia commesso con abuso di relazioni domestiche o di coabitazione.

In molteplici casi la Suprema Corte ha ritenuto configurato il reato in esame, con specifico riguardo a condotte poste in essere da coniugi, ex coniugi o conviventi.

In primo luogo, la violenza privata è stata ritenuta commessa da un marito che, telefonando alla moglie, la minacciava di ritirare la denuncia presentata suo carico. Più precisamente il marito aveva affermato: “Ritira le denunce altrimenti ti farò pentire di essere nata” (Cass, sent. n. 14004/2020).

In primo grado il marito era stato condannato per minaccia. Orbene, il criterio distintivo tra il delitto di violenza privata e quello di minaccia non risiede nella materialità del fatto, ma negli effetti prodotti e nell’elemento intenzionale: nella minaccia è richiesta un’intimidazione generica, che prescinde dal fine dell’agente, mentre nella violenza privata l’azione intimidatrice è rivolta alla realizzazione dell’evento di danno, rappresentato dal comportamento coartato del soggetto passivo.

Secondo un’ulteriore pronuncia della Suprema Corte se un coniuge impone all’altro di partecipare ad una discussione animata, commette il reato di violenza privata: non è, infatti, consentito obbligare il proprio coniuge a discutere su un certo argomento o per una determinata circostanza.

Gli Ermellini hanno confermato la condanna della Corte di Appello inflitta ad un marito per aver costretto la moglie a recarsi in una stanza per svolgere un acceso confronto verbale, senza potersi allontanare per circa due ore (Cass. sent. n. 42722/2017).

In passato la Cassazione ha ritenuto come un coniuge avesse commesso il reato di violenza, avendo ‘cacciato’ fuori di casa l’altro, poiché la convivenza era divenuta insopportabile: “La donna, anche se temporaneamente trasferitasi presso i genitori, aveva il diritto di tornare, né il marito poteva escluderla dalla casa coniugale non essendovi “provvedimenti di assegnazione” dell’abitazione stabiliti dal giudice” (Cass., sent. n. 40383/2012).

Ed ancora, sussiste il reato de quo se il marito geloso, brandendo le forbici, impone alla moglie di tagliare i capelli contro la sua volontà (Cass., sent. n. 10413/2013).

Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità commette il reato di violenza privata anche chi – per impedire l’ingresso o l’uscita di chi vi abita – blocca l’entrata dell’abitazione; chi cambia la serratura dell’appartamento senza il consenso del convivente (Cass., sent. n. 38910/2018); chi inserisce nella serratura le proprie chiavi di casa; colui che parcheggia la propria auto davanti alla porta di casa o al garage.

E’ stato riconosciuto il reato in esame anche nella condotta del coniuge che aveva impedito alla moglie di accedere a una stanza della casa familiare, chiudendo a chiave la serratura (Cass., sent. n. 4284/2016).

Occorre, infine, ricordare come nel caso in cui la violenza o la minaccia sia rivolta a subire o a compiere atti sessuali, viene commessa violenza sessuale e non quella privata.

Mia moglie mi ha denunciato per maltrattamenti

Avv. Stefania Crespi

Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.

Cosa succede dopo denuncia per maltrattamenti?

Cosa succede dopo una denuncia per violenza privata? Trattandosi di reato procedibile d'ufficio la prima conseguenza di una denuncia per violenza privata sarà l'apertura di un procedimento penale, a carico del soggetto accusato, da parte dell'Ufficio della Procura della Repubblica presso il Tribunale competente.

Quanto dura una causa per maltrattamenti in famiglia?

Quanto durano le indagini per il reato di maltrattamenti in famiglia? Il legislatore ha fissato i termini di durata delle indagini in 6 mesi, che decorrono dalla annotazione nel registro del reato (335).

Come difendersi da una denuncia per maltrattamenti?

Per difendersi da un'accusa del genere, la prima cosa da fare è sicuramente quella di rivolgersi ad un bravo avvocato penalista. Se l'imputato non può permettersi l'assistenza di un legale può sempre chiedere un difensore d'ufficio.

Cosa rischia chi viene denunciato per violenza psicologica?

Atti persecutori o stalking: art. 612-bis. E' una forma di violenza psicologica che si sta diffondendo parecchio negli ultimi anni e che prevede una pena da 6 mesi fino a 4 anni di reclusione. Per saperne di più sullo stalking vi invitiamo a leggere il nostro articolo dal titolo Stalker: come difendersi.